IL BLOG di CONPOLCONSIGLIO PSICOLOGICO ONLINE |
![]() |
![]() ![]() ![]() ![]() |
![]() Creare la propria famiglia: la gestione delle relazioni familiari e le conseguenze nella coppia
|
|
|
IL BLOG di CONPOLCONSIGLIO PSICOLOGICO ONLINE |
![]() |
![]() ![]() ![]() ![]() |
![]() Creare la propria famiglia: la gestione delle relazioni familiari e le conseguenze nella coppia
|
|
|
Articolo a cura della Dott.ssa Claudia Birelli “Parlatene, parlatene sempre. Perché i silenzi sono pietre.
E le pietre diventano muri. E i muri, distanze incolmabili.” Nonostante sembri così chiaro, la comunicazione fra i partner continua ad essere uno dei principali scogli all’interno delle relazioni. Spesso, infatti, è una delle principali cause di rottura della coppia. E’ facile ad esempio incorrere nel rischio di dare per scontato che l’altro sappia cosa generi il nostro piacere o dispiacere e quindi ritenere che il proprio partner possa comprendere il motivo del nostro disagio senza che gli sia comunicato…“l’altro può capirmi anche se non parlo.” Uno dei consigli principali che si dà alle coppie che varcano la soglia della terapia, è dunque quello di comunicare. Per evitare incomprensioni, litigi e un rapporto tossico parlare è indispensabile. Eppure sembra non bastare! Infatti, comunicare non è comunque sufficiente se lo si fa in maniera inefficace. UNA CATTIVA COMUNICAZIONE E’ MAESTRA DEL CONFLITTO Una comunicazione disfunzionale fra i partner è uno dei primi indici di un conflitto che perpetuandosi all’interno della relazione potrebbe diventare sempre più grave guidando i partner verso la sensazione di non avere più una via d’uscita o persino ritenere la relazione destinata ad un’inevitabile conclusione. E’ cosi che la complicità, l’ascolto attento, la comprensione diventano un ricordo lontano lasciando spazio nella maggior parte dei casi a litigi ricorrenti, critiche, giudizi, attacchi e ostruzionismo. Una delle situazioni più frequenti vede entrambi i partner desiderosi persino che l’altro cambi. A chi non è mai capitato di pensare: “Il mio partner non mi capisce” o anche “Non riesco a spiegarmi come vorrei”, oppure “Non facciamo altro che litigare”. Probabilmente in tali circostanze c’è qualcosa da rivedere. Non possiamo negare che nel momento in cui si costruisce una coppia, c’è la possibilità che si verifichino delle crisi all’interno di questa. E nella crisi di coppia si comunica principalmente con le armi del disprezzo e della critica oppure con atteggiamenti difensivi e di ostruzionismo. Prima di svelarti utili strategie per migliorare la comunicazione con il partner voglio dirti una cosa importante… Il CONFLITTO PUO’ DIVENTARE UNA RISORSA Il conflitto in sé non rappresenta il problema: non è questo ad incidere sul successo della relazione piuttosto il modo in cui tale conflitto viene gestito. Se lo si fa in modo produttivo, infatti, può far nascere una nuova intimità all’interno della relazione che sa nutrirsi di comprensione e accettazione reciproca. La questione più rilevante sta dunque nel come si vive e si supera la crisi che può anche essere un momento di crescita e di apprendimento di nuovi comportamenti. Detto questo, il primo passo per produrre una comunicazione efficace e positiva è sapere cosa è bene evitare e cosa è bene imparare e comprendere. I BLOCCHI DELLA COMUNICAZIONE: CONOSCERLI PER EVITARLI Nelle prossime righe scoprirai delle semplici strategie per allentare le tensioni e rendere la comunicazione più efficace ma prima, conosciamo meglio i comportamenti distruttivi più frequenti che bloccano la comunicazione. Questi non fanno altro che innalzare muri all’interno del rapporto ostacolando la comunicazione e impedendo una risoluzione efficace dei problemi. Emozioni fuori controllo -> Blocchi della comunicazione -> Problemi non risolti Lo sapevi che Gottman (1999) li definì i quattro cavalieri dell’apocalisse? Si tratta di atteggiamenti controproducenti di cui cadiamo facilmente vittime quando le nostre emozioni hanno la meglio su di noi. Vediamoli meglio: 1. IPERCRITICISMO: le critiche feriscono, distruggono e dividono, soprattutto quando sono dirette alla persona e non al suo comportamento. Sono armi molto pericolose che si esprimono a diversi livelli arrivando ad includere colpe e diffamazione. La tendenza è quella di generalizzare facendo spesso uso delle parole “sempre” e “mai”: “Non porti mai giù la spazzatura. Non si può contare su di te”. Criticare in maniera energica puntualizzando le colpe del partner tende a creare, nella persona che si sente accusata, una reazione emotiva di ribellione; 2. DISPREZZO: può essere espresso in modi creativi, per esempio con il tono di voce o correggendo la grammatica del partner che sta parlando. Ma il sistema più efficace e distruttivo è con le espressioni del volto. Basta alzare gli occhi al cielo o fare una smorfia per far infuriare il partner; 3. VITTIMISMO: il terzo cavaliere dell’apocalisse è il difensivismo. In pratica l’atteggiamento di chi, di fronte alle critiche si atteggia a vittima innocente; 4. SILENZIO: l’atteggiamento di chi interrompe bruscamente o sfugge ad una discussione rifiutandosi di rispondere, non reagendo alle parole del partner. LE CONVINZIONI IRRAZIONALI NELLA COPPIA Svariate sono poi quelle convinzioni irrazionali che la persona porta con sé e che ripete automaticamente nella relazione influenzando la comunicazione. Scopriamone alcune:
In sintesi, tutte queste modalità sono indicatrici del fallimento della relazione: se sono presenti significa che la gestione dei conflitti non sta avvenendo in maniera costruttiva rendendo il dialogo fra partner decisamente controproducente. Sembra a questo punto che non sia poi così difficile litigare e che la felicità di coppia possa essere messa a dura prova. In tali circostanze la sensazione prevalente è che il partner non sia in grado di comprendere le nostre esigenze e a quel punto subentra un profondo senso di rabbia, frustrazione, delusione e molti gesti sottintesi finiscono per diventare malintesi. E allora come possono le coppie evitare di innalzare muri e costruire invece un rapporto di maggiore vicinanza? Al RIPARO DALL’APOCALISSE Arriviamo al dunque… La coppia che funziona meglio è quella che sa comunicare. Ciò significa che la comunicazione è un aspetto che si può e si deve apprendere per poter avere una relazione soddisfacente. Giorgio Nardone, fondatore insieme a Paul Watzlawick del Centro di Terapia Strategica, nel suo libro “Correggimi se sbaglio” suggerisce 4 semplici strategie per comunicare efficacemente e appianare i conflitti. Queste tattiche permettono di spezzare il collegamento tra emozioni e discussioni aiutando le coppie ad instaurare una relazione più proficua e sana. 4 STRATEGIE DI COMUNICAZIONE EFFICACE NELLA COPPIA Ebbene sì, solo soltanto 4 gli ingredienti strategici che rendono il dialogo efficace e di successo guidando verso la vicinanza all’altro piuttosto che alla distanza e al conflitto:
Ad esempio…sentendomi trascurata potrei chiedere al mio partner: “Come mai non mi consideri abbastanza?” Questa opzione offre troppe possibilità di risposta oltre che risultare perentoria. Se invece domando: “Ho notato che negli ultimi tempi mi dedichi meno attenzioni…è per via del tuo lavoro o perché nutri meno interesse nei miei confronti?” Questa modalità comunicativa aprirà a scenari differenti: il partner non si troverà di fronte ad una domanda provocatoria piuttosto ad una domanda che lo farà riflettere su quello che sta accadendo nell’ultimo periodo;
Riformulare aiuta a rafforzare ciò che si sta creando nella comunicazione con l’altro e a non creare equivoci, poiché entrambi sarete sicuri di ciò che vi starete dicendo;
UN DIALOGO DI SUCCESSO PER TROVARE INSIEME LE SOLUZIONI Abbiamo imparato che i problemi di coppia, nella maggior parte dei casi, si accompagnano ad una modalità comunicativa fra partner prettamente disfunzionale, la quale, maestra di litigi e conflitti frequenti, non permette un’adeguata risoluzione dei problemi all’interno della coppia: lo spazio relazionale risulta governato da emozioni che prendono il sopravvento discutendo, biasimando e accusando il partner o ritirandosi senza parlare dei problemi e dei sentimenti feriti. Fare le stesse cose, adottare le stesse soluzioni inefficaci ci porta ad ottenere gli stessi risultati di sempre: creare qualcosa di nuovo richiede un cambio di prospettiva. In questo modo la comunicazione non rimarrà fine a sé stessa ma permetterà ad entrambi i partner, insieme, di trovare una soluzione alla problematica iniziale volgendo insieme al cambiamento. Questo è fondamentale soprattutto per rafforzare sintonia e alleanza nella coppia: agire insieme, trovare insieme una soluzione significa che non la stiamo imponendo, piuttosto stiamo coinvolgendo il partner restituendogli potere e responsabilità. Questi sono i tasselli principali da tenere in considerazione nella comunicazione efficace al fine di giungere alla negoziazione piuttosto che al conflitto. Per concludere…tieni a mente che imparare una nuova abilità o cambiare un modello di comportamento richiede tempo, sforzo, impegno e pratica. L’arte del dialogo non è qualcosa di semplice da apprendere. Restare, infatti, ancorati a vecchi modelli è molto più facile poiché essi sono diventati familiari. Ma se siete infelici perché i vostri bisogni rimangono insoddisfatti, allora vale la pena di sforzarsi per apprendere abilità più funzionali sia a voi stessi che al vostro rapporto di coppia. Per risolvere i problemi, bisogna essere disposti ad ascoltare e a riconoscere il partner, che per questo sarà più disponibile ad ascoltare e a riconoscervi. “E’ importante imparare a parlarsi per continuare ad amarsi” Conoscevi già queste strategie di comunicazione? Le hai messe in atto? Fammelo sapere nei commenti 😊 Se sei interessato ad approfondire argomenti sulle relazioni di coppia Segui anche il mio profilo instagram con tips e suggerimenti utili sul tema. I miei canali social: https://www.facebook.com/psicologa.claudiabirelli/ https://www.instagram.com/psicologa.claudiabirelli/ BIBLIOGRAFIA
0 Commenti
![]() Articolo a cura del Dott. Ilario Pisanu Si parla di Dipendenza Affettiva quando il “rapporto d’amore” è vissuto come condizione stessa della propria esistenza. Si definisce appunto “dipendenza” affettiva, per sottolineare il fatto che, proprio come per le dipendenze da sostanze, la persona non può rinunciare (pena “la crisi d’astinenza”) all’oggetto amato: anzi, con il passare del tempo, richiede “dosi” di presenza o vicinanza sempre maggiori. Caratteristiche del dipendente affettivo Le persone che ne sono affette vedono nell’altra persona la fonte di ogni benessere e pur di non rischiare di perdere l’oggetto amato, sono disposte a sacrificare qualsiasi bisogno o desiderio personale fino al punto di annullare se stessi. Queste persone passano la loro vita a mendicare l’”affetto” dell’altro, lo idealizzano per sopprimere i sentimenti di inadeguatezza, vuoto, ansia, impotenza, scarsa autostima e non amabilità che si trovano a fronteggiare. Da dove proviene la Dipendenza Affettiva? La Dipendenza d’Amore trova le radici nell’infanzia del dipendente affettivo, i cui bisogni d’amore, affetto ed accudimento sono stati negati. In una relazione sana e funzionale con le figure significative (ad esempio mamma e papà) il bambino impara, attraverso le cure e la sensibilità dell’altro, che egli “è una persona degna d’amore”: è questo sentimento a nutrire il suo amor proprio e la sua fiducia verso se stesso e gli altri. La persona che sviluppa la Dipendenza Affettiva non ha “fatto suo” questo sentimento. Può succedere infatti che il bambino, a cui sono stati negati i propri bisogni, sperimenti la sensazione di non essere visto e riconosciuto e che quindi si convinca (talvolta inconsapevolmente) che “i suoi bisogni non contano”, che “non è degno di essere amato” e ancora “visto che mamma e papà non soddisfano i miei bisogni, vuol dire che non mi vedono e questo vuol dire che sono niente”. Le conseguenze L’importanza attribuita all’oggetto d’amore spinge il dipendente affettivo a preservare il rapporto "sentimentale" ad ogni costo, fino ad assumere un atteggiamento di assoluta “dedizione”, adoperandosi affinché i bisogni e i desideri dell’altro vengano soddisfatti. Questo atteggiamento è spiegato dal fatto che nella Dipendenza Affettiva la persona vive costantemente nel terrore di poter perdere la persona amata: un evento considerato insopportabile. Risorse per fronteggiare la Dipendenza Affettiva Per affrontare e superare la Dipendenza Affettiva è fondamentale chiedere aiuto. A tale scopo può essere di grande aiuto intraprendere un percorso individuale di sostegno psicologico, con la possibilità di essere affiancato dalla partecipazione a gruppi di sostegno. Il gruppo è un luogo di incontro protetto, accogliente e non giudicante in cui è possibile condividere la propria storia di Dipendenza Affettiva ed i propri vissuti emotivi. In cui è possibile gestire l’ansia, la paura dell’abbandono, della separazione e del rifiuto, individuare e gestire comportamenti disfunzionali, rafforzare l’autostima ed il senso di autoefficacia, per andare verso l’autonomia. Partecipare a un gruppo offre la possibilità di uscire dall’isolamento, di comprendere che non si è soli nel proprio problema e di confrontarsi con le strategie messe in atto da altri che vivono una situazione simile. Creare la propria famiglia: la gestione delle relazioni familiari e le conseguenze nella coppia.8/12/2020 Articolo a cura della Dott.ssa Stefania Proietti
Eleonora ha 30 anni, da un anno è andata a convivere con il suo compagno Riccardo. Ogni sera prima di tornare a casa passa a trovare i suoi genitori, per assicurarsi che sia tutto ok, scambiare due chiacchiere, chiedere il loro parere su alcune questioni personali, rispondere alle richieste che le fanno continuamente. Riccardo, rientrato dal lavoro la attende con pazienza, iniziando però a mostrare disappunto, sente che il loro spazio di coppia è occupato un po’ troppo dalla famiglia di origine della sua compagna. Eleonora non riesce a barcamenarsi tra le richieste provenienti, implicitamente e non, dai suoi genitori, dal suo compagno, e sente la difficoltà nel decifrare il suo mondo interiore, mondo in cui i suoi bisogni, le sue emozioni, non trovano il giusto spazio. Quando si è davvero liberi di agire nel rispetto dei propri spazi individuali e di coppia? Quando si diventa realmente adulti, differenziati e indipendenti emotivamente dalla propria famiglia? Il termine differenziazione (M. Bowen, 1979) fa riferimento a quel lento e complesso processo attraverso il quale l’individuo si muove per divenire emotivamente differenziato dai propri genitori, nella misura soggettiva in cui ciò sarà possibile. Determinanti in tale processo sono il grado di differenziazione di madre e padre e il clima emotivo prevalente nella famiglia d’origine. Sin dalla prima infanzia, infatti, il bambino è a stretto contatto con l’emotività e la soggettività delle persone significative che gli sono accanto. I temi irrisolti dei genitori si tramandano attraverso le generazioni, e possono ostacolare il nostro processo di separazione dal nucleo familiare di origine. Quando questo avviene, la nostra parte più bambina, bisognosa, dipendente e indifferenziata, è predominante rispetto a quella adulta, rimanendo fortemente vulnerabile alle influenze esterne. Si resta imprigionati in una posizione infantile, che rende spesso “incapaci” di quell’autorevolezza personale davanti ai propri genitori, e non in grado di superare i limiti “gerarchici” per poter instaurare con loro un rapporto alla pari. L’alto livello di simbiosi emotiva presente all’interno della famiglia impedisce ai suoi membri una chiara percezione di sé come individui completi. La dipendenza che si crea è reciproca, ma siamo noi figli a dover tentare quel “movimento” interiore per poterla superare. Cosa può succedere quando si sta in coppia con un basso livello di differenziazione? Quando i partner non sono riusciti a separarsi in modo adulto dalle rispettive famiglie, ciò che appartiene al passato rimane sospeso, e andrà inevitabilmente ad occupare lo spazio di coppia, non come valore ma come ostacolo. Maurizio Andolfi (1999), a tal proposito, ha descritto tre configurazioni differenti di coppie : LA COPPIA CONFLITTUALE, in cui la tensione è molto alta, come se i due partner facessero parte di due squadre avversarie. Il legame è fortemente influenzato da tutto ciò che è irrisolto nelle proprie storie familiari. Da una parte un partner che si è apparentemente distaccato dalla propria famiglia, ma sente ancora forte dentro di sé la rabbia e il dolore per tutto ciò che è rimasto in sospeso con genitori e fratelli; dall’altra invece uno che non è riuscito a separarsi, differenziarsi dalla sua famiglia, con la quale nutre una forte dipendenza emotiva. Come si può trovare quello spazio comune di coppia, libero da intrusi, e diventare un’unica squadra con obiettivi comuni? LA COPPIA INSTABILE, nella quale in genere i due partner sono accomunati da un vissuto di deprivazione affettiva nella propria famiglia d’origine. Per colmare tale vuoto ognuno chiede implicitamente all’altro di essere il genitore che non ha avuto, investendolo di grandi aspettative e richieste che in realtà non gli competono. Non vi è una reale intimità di coppia, ma una costante richiesta di vicinanza affettiva, limitante per la libertà individuale. Il rischio che si corre, se tale rassicurazione non arriva dalla propria famiglia o dalla relazione di coppia, è quello di richiederla ai propri figli. LA COPPIA “SANDWICH” SCHIACCIATA TRA DUE GENERAZIONI. Con il prolungamento dell’età media di vita, insieme all’allungarsi dei tempi dei figli nell’uscita da casa, molto spesso le coppie si trovano davanti ad una condizione che potremmo definire come “nido pieno”. Compito arduo per i coniugi è quello di riuscire a mantenere un confine coniugale, un proprio spazio di intimità. Ci si può ritrovare letteralmente schiacciati tra due generazioni, quella anziana dall’alto e quella dei figli dal basso. Troppe presenze e troppi pensieri! In tali circostanze la coppia può entrare in crisi, e il rapporto può logorarsi nel tempo. Alla luce di ciò, è importante proteggere e rispettare gli spazi individuali e di coppia, permettendo quel passaggio evolutivo necessario alla crescita personale. Quando questa diventa una sfida troppo grande per affrontarla da soli, un percorso terapeutico potrebbe diventare un valido strumento per fermarsi, ascoltarsi, e cercare un giusto equilibrio nell’incontro tra sé, la propria famiglia ed il proprio partner. ![]() Articolo a cura della Dott.ssa Rosanna Di Falco Nel corso dei secoli l'amore è stato reso come una passione straziante. Ovidio fu il primo a proclamare: “Non posso vivere con o senza di te” ( Amores III, xi, 39), E anche il linguaggio quotidiano è pieno di espressioni come "Ho bisogno di te" e "Sono dipendente da te". Queste frasi ampiamente utilizzate catturano ciò che molte persone conoscono in prima persona: che quando siamo innamorati, proviamo un'attrazione fortissima per un'altra persona, persistente, urgente e difficile da ignorare. Quando invece l’amore si trasforma in una ossessione che domina la mente e fa soffrire, non parliamo più di amore ma di DIPENDENZA AFFETTIVA. Essa è definibile come uno stato patologico in cui la relazione di coppia è vissuta come condizione unica, indispensabile e necessaria per la propria esistenza. Si tratta di una forma di amore ossessivo, simbiotico, fusionale e stagnante che viene vissuto alla stregua di una droga e per il quale viene sacrificata qualsiasi spinta evolutiva (di cambiamento) ed ogni altra gratificazione. All’altro viene attribuita un’importanza tale da annullare se stessi e non ascoltare i propri bisogni. Tale meccanismo viene perpetuato per evitare di affrontare la paura più grande: la rottura della relazione. La Dipendenza Affettiva fa parte delle cosiddette “New Addictions”, quelle forme di dipendenza dette dipendenze comportamentali, poiché non vedono coinvolta alcuna sostanza chimica (come alcol o sostanze di abuso): l’oggetto di queste dipendenze infatti è un comportamento (o una persona nel caso della dipendenza affettiva) o un’attività lecita e socialmente accettata. La possibilità di passare dalla relazione d’amore ad una di dipendenza affettiva è frutto di concause legate a fattori di rischio, contestuali ed individuali, che rendono questo passaggio quasi impercettibile, individuabile probabilmente solo attraverso le conseguenze a lungo termine. La persona dipendente proviene prevalentemente da un’esperienza familiare in cui sono venuti a mancare accudimento, validazione e risonanza emotiva da parte delle figure di riferimento e ha quindi sperimentato un profondo senso di abbandono ed inadeguatezza, al quale fanno seguito emozioni di rabbia, vergogna e sensazione di vuoto interiore; inoltre non ha imparato a riconoscere, dare valore, prendersi cura dei propri bisogni e stati emotivi e a far rispettare confini relazionali sani. CARATTERISTICHE DELLA DIPENDENZA AFFETTIVA Tra le caratteristiche della dipendenza affettiva troviamo:
COME USCIRE DAL CIRCOLO VIZIOSO DELLA DIPENDENZA AFFETTIVA Come fare dunque per imparare ad avere relazioni più sane? Occorre lavorare su alcuni punti fondamentali:
Dott.ssa Rosanna Di Falco Psicologa, Pedagogista, Mediatrice Familiare Via Col di Lana, 11 Roma Articolo a cura della Dott.ssa Rosanna Di Falco
La genitorialità rappresenta un aspetto rilevante della vita dell’individuo, un elemento importante della propria identità personale. La scelta di diventare genitori comporta un’esperienza di vita in costante evoluzione che tocca fin nel profondo tutto il proprio essere. Come sostiene Francois Dolto: “nascendo un bambino trasforma due adulti in genitori” e sempre più famiglie vivono con difficoltà le responsabilità del proprio ruolo genitoriale. Spesso si sente dire che il mestiere di genitore è il più complesso del mondo e quest’affermazione sembra essere ancor più vera in questo periodo storico-sociale nel quale i valori sembrano essere divenuti “liquidi”e i ruoli incerti; ne è la riprova, il diffondersi, nell’ultimo periodo di tante “scuole per genitori”. Gli attuali genitori, si trovano a vivere esperienze nuove rispetto al passato, infatti, i disagi personali vissuti durante la propria crescita e i veloci cambiamenti sociali li hanno persuasi dell’impraticabilità per i loro figli, dei valori che hanno sperimentato su di sé e dell’impossibilità di riproporre i modelli genitoriali della propria famiglia di origine. La complessità dell’esistenza nella società in cui apparteniamo rende necessaria una notevole flessibilità e interscambiabilità di ruoli all’interno della famiglia: i padri, tendono oggi a lasciare spazio in alcune delle aree che erano di loro esclusiva competenza, dedicandosi a quelle funzioni affettive che in passato erano delegate quasi totalmente alla figura materna. Le madri, rinunciando in parte all’esclusività del rapporto con i figli, hanno maggiori possibilità di realizzazione personale all’esterno della famiglia e questo non senza difficoltà da parte di entrambe le figure. Come scriveva Winnicott: “… nel lavoro di crescere i figli, le cose importanti si fanno momento per momento, mentre accadono i fatti della vita. Non esistono lezioni, né momenti specifici per imparare”. (Winnicott, 1993, p. 31). Molti genitori oggi si sentono inadeguati, lo capiscono quando scoprono che diventeranno madre/padre, quando il piccolo nasce, quando piange, rigurgita, non dorme, quando questi non gli rivolge lo sguardo oppure quando vuole stare sempre in braccio. Da lì in poi i genitori vivranno tutto un crescendo di ansie da impreparazione, scopriranno che non possono sentirsi competenti una volta per tutte perché dietro l’angolo c’è un nuovo evento imprevisto, una crisi evolutiva, un dubbio e ritorna la solita domanda: “Ce la farò? Sarò competente”? CHI È UN GENITORE COMPETENTE O SUFFICIENTEMENTE BUONO: Un genitore che garantisce la sua presenza o un genitore assente e in quanto assente impone ai figli il rapporto con la loro responsabilità? Un genitore sufficientemente buono è qualcuno che sa oscillare tra la posizione della presenza e quella dell’assenza perché la presenza eccessiva tende a produrre un modello disciplinare della genitorialità che guida e orienta il destino della vita dei propri figli, invece un genitore spesso assente rischia di esporre precocemente e in modo traumatico la vita dei figli al vuoto. Un genitore competente è un genitore che sa offrire la propria presenza non ingombrante, sa chiudere gli occhi, retrocedere e andare sullo sfondo; da una parte garantisce la presenza attraverso l’ascolto della richiesta d'amore del figlio e nello stesso tempo in grado di lasciar andare i propri figli consegnandoli al mondo. “….Voi siete l'arco dal quale, come frecce vive, i vostri figli sono lanciati in avanti. L'Arciere mira al bersaglio sul sentiero dell'infinito e vi tiene tesi con tutto il suo vigore affinché le sue frecce possano andare veloci e lontane. Lasciatevi tendere con gioia nelle mani dell'Arciere, poiché egli ama in egual misura e le frecce che volano e l'arco che rimane saldo. (Kahlil Gibran) Se in passato il modello genitoriale tramandato accoglieva spesso alto livello di controllo e scarso accudimento oggi, in funzione del livello di questi due elementi, possiamo individuare nuovi stili genitoriali.
Dott.ssa Rosanna Di Falco Psicologa, Pedagogista, Mediatrice Familiare Via Col di Lana, 11 Roma ![]() Articolo a cura della Dott.ssa Maddalena Palumbo Ogni qualvolta mi accingo a scrivere sul tema “coppia” e sulle numerose difficoltà che essa trova durante il suo percorso, mi torna alla mente un avvocato napoletano A.P. marito premuroso e padre amorevole di sette figli il quale soleva esclamare spesso: ”Non riesco a comprendere come sia possibile che esista una laurea per esercitare ogni tipo di professione e non ne esista una per imparare a stare bene in coppia e a fare i genitori!” Ecco, in questo articolo scriverò dei litigi col partner, riportando un “grandissimo”… Cominciamo col dire che la coppia vive un suo “ciclo evolutivo” la cui prima fase è rappresentata dall’innamoramento. In questa fase non siamo in grado di vedere l’altro come veramente è e spesso lo idealizziamo riducendo in misura infinitesimale i suoi difetti e aumentando esageratamente i suoi pregi e inoltre viviamo l’illusione e nutriamo l’aspettativa che l”’Altro” soddisferà tutti i nostri bisogni… purtroppo ciò non corrisponde al vero!… e quando la realtà fa capolino nel quotidiano, cominciano i primi dissapori, le prime discussioni, i primi litigi. La maggior parte dei litigi con il partner scoppia quando la comunicazione non è corretta e non si riesce a trovare un accordo sul problema sul quale si sta discutendo in quel dato momento e i litigi, mal gestiti, portano spesso a conflitti anche profondi portando sovente a separazioni “fasulle”. Perché “fasulle”? Perché molto spesso accade che a una “separazione giuridica” non corrisponda una “separazione emotiva” e quindi i partner continuano a mantenere un forte legame. I tribunali sono pieni di coppie che si fanno la guerra per anni senza sapere che, se il legame fosse veramente sciolto, non starebbero lì: per confliggere devono necessariamente stare in contatto… ma loro questo non lo sanno! I litigi sono basati su un meccanismo perverso di interazione: ognuno dà la colpa all’altro di ciò che sta accadendo o di ciò che è disfunzionale nel rapporto. Così la “colpa” rimbalza dall’uno all’altro senza soluzione di continuità, quasi fosse una pallina di ping pong. In realtà la parola “colpa” non dovrebbe essere pronunciata. Nel rapporto di coppia, quasi mai si è nella consapevolezza di ciò che succede oltre a ciò che appare, e quasi mai si è nella consapevolezza che tutto ciò che si verifica accade col contributo di tutti e due nella stessa percentuale, al 50%, e quindi con la stessa responsabilità: si è due metà di una stessa mela. Nella relazione di coppia, quindi, è importante acquisire la consapevolezza che, pur rimanendo presenti un “io” e un “tu”, esiste un “noi”. Quando una coppia si fa la guerra, dunque, è una lotta che viene fatta non soltanto dall’uno contro l’altro, ma anche e principalmente al “noi” costruito insieme. Trattando dei litigi in seno alla coppia, cosa si può dire di più e/o di meglio di quanto scrisse Francesco Alberoni nel 1987 sul Corriere della Sera nella rubrica “Pubblico & Privato”? L’articolo era intitolato “Se il divorzio scatena la belva che è in noi”. Ecco la sua testimonianza: «Perché si sta litigando? Perché due persone vissute insieme diversi anni, quando si separano, non riescono quasi mai a evitare il conflitto, i litigi violenti, le accuse, le recriminazioni? Molti pensano che siano proprio questi litigi la causa della separazione. I due partner litigano così ferocemente che, a un certo punto, non ne possono più e si separano. Ma se così fosse, la separazione dovrebbe essere un sollievo, un momento di gioia e i due membri della coppia dovrebbero essere raggianti e stringersi la mano da buoni amici. Invece la separazione è un trauma profondo. Restano i rancori e i litigi sono pronti a scoppiare anche dopo. Ma sono effettivamente i litigi che conducono la coppia alla separazione? No, i litigi non sono la causa della separazione ma il sintomo della sua difficoltà: sono la manifestazione di legami, domande, bisogni reciproci ancora vivi, talvolta indistruttibili. Le persone che sono state profondamente innamorate e/o che hanno vissuto assieme per anni si avviano sulla strada che porterà alla separazione quando non riescono più a darsi qualcosa che, per ciascuno di loro, è essenziale. E non riescono a crederci. Perché ciascuno, nel matrimonio o nella convivenza, ha cercato di dare il meglio di sé, si è sacrificato e si aspetta che l’altro sia soddisfatto. Invece ciascuno ha nel proprio cuore mille desideri, mille bisogni che nessuna persona al mondo può soddisfare. Tutte le persone cambiano, e spesse volte i due partner non cambiano nella stessa direzione e allora entrambi cominciano a rimproverarsi reciprocamente di non corrispondere alle originarie aspettative. L’amore finisce perché ciascuno, diventando appieno sé stesso, si allontana da come l’altro lo voleva. La delusione e il rancore profondi sono possibili soltanto in persone che si sono volute bene e che, per molto tempo, hanno fatto ogni sforzo per capirsi e per soddisfare i desideri reciproci. Il litigio è un grido, è una richiesta di stima per sé stessi e una richiesta all’altro di cambiare. È un confronto tra due prospettive di vita in cui ciascuno vuol vedere riconosciuta la validità, la dignità della propria e, nello stesso tempo, vuole che l’altro cambi per adeguarsi a lui. Nei litigi c’è sempre una richiesta angosciosa, pressante: “Dammi questo!” “Fa’ così!”. E questa richiesta è accompagnata dalla giustificazione: “Fallo, perché io sono diverso da te e per me è essenziale”. Anche se la richiesta è fatta in tono lamentoso o rancoroso, il significato è sempre questo: “Riconosci il mio valore e il mio diritto”. E l’altro risponde nello stesso modo, rifiutando. “Io non posso, perché la mia natura è diversa, perché ho anch’io un analogo valore, un’analoga dignità, un’analoga differenza che voglio venga accettata”. In fondo, ciascuno richiede all’altro di essere ciò che non è e, così facendo, mette in discussione la sua identità, il suo valore in quanto persona: non un singolo gesto, ma il suo modo di essere. Per questo i litigi sono così drammatici e provocano tanta sofferenza. Si comprende anche perché la separazione e il divorzio, spesso, non fanno cessare questi scontri. Basta che se ne ripresenti l’occasione e si riaccendono: perché ogni essere umano vuol vedere riconosciuto il suo valore. Ciascuno, anche dopo molto tempo, continua a voler ottenere un riconoscimento dalla persona che forse ha amato di più nella vita. Il riconoscimento degli altri non gli basta. Vuole proprio quello. Ed è per questo che vi sono molti uomini e molte donne che dopo anni di separazione attendono ancora il gesto, la parola, l’ammissione, il riconoscimento che ritengono loro dovuti.» ( F. Alberoni). Se una comunicazione scorretta porta ai litigi e se questi, mal gestiti, portano a conflitti profondi si ha come conseguenza la crisi del rapporto. Ma la parola “crisi” non significa solo momenti di stallo o di negatività, etimologicamente proviene dalla parola “crino” che significa “scelta”. Pertanto, paradossalmente, la conflittualità può rappresentare un’opportunità di crescita individuale e di evoluzione del rapporto stesso… e di questo parleremo in seguito… A cura di Maddalena Palumbo.
Quando si forma una coppia, sia essa convivente o coniugata, questa potrebbe desiderare avere dei figli: diventare mamma e papà o, come oggi giorno talvolta accade, mamma e mamma, papà e papà. In nessun caso, comunque, si nasce genitori! Si tratta di due persone adulte che si assumono l’impegno di prendersi cura dei propri figli, siano essi naturali o adottati o avuti in maternità surrogata ecc. Non fa nessuna differenza su “come” si siano avuti i figli, purché si sia disponibili ad amarli incondizionatamente. Il vero amore per i figli non può non essere incondizionato! Ma quanti genitori sono capaci di questo tipo di amore? Certamente non è facile e molto dipende anche dalla storia di vita e dalle esperienze, dai problemi e dai traumi vissuti nelle famiglie di provenienza dei genitori stessi e quindi dai modelli familiari che si trasmettono di generazione in generazione! Ma … se è complicato e difficile amare un figlio incondizionatamente, specialmente per quei genitori che hanno difficoltà di fronte a creature disabili e/o con handicap, tutte le famiglie si cimentano nell’educare i figli. Anche quando non vi è una volontà esplicita, è lo stesso ambiente familiare che li educa in un modo anziché un altro, sia a livello socioculturale sia a livello emozionale. L’educazione socioculturale consiste nelle regole sociali della “tribù” di appartenenza, e con questo termine vogliamo definire il continente, la nazione, la città e la famiglia di cui si fa parte in un dato momento storico. Sappiamo, infatti, che le regole sociali sono diverse secondo le diverse culture e dei diversi periodi storici. Inoltre è bene sapere che le figure genitoriali fanno da modeling per i figli e quindi se, ad esempio, i genitori dicono bugie non possono aspettarsi né tantomeno pretendere che il figlio non le dica. Allo stesso modo, se il genitore è disonesto intellettualmente non si può aspettare né pretendere che i figli siano onesti. Così come, se il genitore pensa solo ed esclusivamente a se stesso, ignorando le esigenze del prossimo, siano essi familiari e/o sociali, non potrà pretendere che il figlio diventi una persona rispettosa dei bisogni altrui. Dell’educazione alle emozioni, mi sembra, invece, che i genitori siano interessati molto poco e, anche chi vorrebbe cimentarsi in quest’operazione, spesso non ha conoscenze sufficienti per metterla in pratica e di conseguenza, non di rado lo fa in modo sbagliato. L’alfabetizzazione emozionale consiste nell’insegnare ai figli a riconoscere le proprie emozioni, imparare a gestirle e a comunicarle. Anche questo dipende molto da quanto i genitori stessi le riconoscono, le comunicano e le gestiscono e quanto le trovino legittime. Ad esempio, in quasi la totalità delle culture alle figlie femmine vengono riconosciute, apprezzate e convalidate la compassione e il pianto come espressione di un certo tipo di emozioni; ma non è allo stesso modo che si educano i figli maschi, ai quali si dice che per un maschio “piangere è vergognoso!” oppure “ sembri una femminuccia!” e che deve essere un “duro”! Non è questo dunque, il modo di educare i figli! Non è in questo che verte la loro educazione! Quindi, qual è il “vero” compito educativo di ogni genitore? La parola educare viene dal latino “e-ducere”, ovvero “portare fuori”, sarebbe quindi compito di ogni genitore riuscire a “portare fuori” da ciascun figlio il proprio, vero e autentico modo di essere e di sentire, agevolandoli nel far emergere i loro talenti anche quando questi non collimano con quelle che sono le loro aspettative. Ecco! Queste sono le vere barriere per riuscire a educare bene i propri figli! In molti casi, infatti, fin dalla tenera età i bambini vengono manipolati dai genitori per realizzare i propri sogni e si può verificare che, magari, chi ha una grande vena artistica venga pilotato a fare degli studi e/o a svolgere delle attività che niente hanno a che fare con l’arte. Nella maggioranza dei casi ciò accade o perché i genitori desiderano che i loro figli abbraccino la loro stessa professione/attività o perché i genitori non hanno realizzato i propri sogni e vogliono vederli realizzati nei propri figli! Come si può concretizzare il “vero” compito educativo di ogni genitore? ASCOLTANDOLI!!! La risposta sembrerà banale e invece il segreto è tutto qui! “Ascoltare” non equivale a “sentire”: sono due situazioni molto diverse! Ascoltare i figli significa comprendere i loro bisogni, i loro sentimenti, le loro tristezze, le loro emozioni e insegnare loro ad individuarle, accettarle e saperle esprimere. “E-ducare” consiste, quindi, nel far loro da guida nel rispetto di ciò che sentono in modo da far sì che la ghianda si apra e porti fuori il suo frutto e quindi che al figlio tanto amato venga data la possibilità di realizzare veramente se stesso: diventare ciò che era nato per essere!!! Per conseguire quest’obiettivo è indispensabile evitare errori che risultano essere di impedimento a una giusta e corretta “e-ducazione”, quali ad esempio, essere iperprotettivi volendo evitare ai figli tutte le sofferenze e arrivando finanche a schierarsi dalla loro parte nel momento in cui un professore dà qualche insufficienza nell’interrogazione e/o qualche punizione: purtroppo non esiste persona al mondo che abbia potuto raggiungere tale obiettivo e poi, non dimentichiamolo, sono proprio gli intoppi, le sofferenze, i problemi, gli ostacoli con il conseguente superamento degli stessi che ci fanno crescere e maturare. È necessario creare e sostenere la loro autostima e, affinché ciò avvenga, quando i genitori danno dei giudizi, non devono stigmatizzare la persona per ciò che ha fatto, bensì focalizzarsi sul comportamento che si vuole correggere. Ad esempio: non dire “ sei stato cattivo” ma “questa cosa non va fatta”, in tal modo il bambino/ragazzo non si sente sminuito nella persona ma si sente comunque accettato dai genitori, i quali devono far sentire il proprio figlio unico! Certamente bisogna anche sapere, come detto sopra, che si fa da modelli per i propri figli e quindi è necessario adottare dei comportamenti e degli atteggiamenti determinanti, affinché il figlio possa apprendere una modalità che sia funzionale per sé e per gli altri. Una strategia fondamentale da utilizzare con i figli è adottare delle regole condivise. Le regole, infatti, non devono mai essere imposte, perché in tal modo non sono comprese dai figli e vengono vissute da loro soltanto come un’imposizione, avvertendo un senso di schiacciamento da un’autorità superiore. Condividere le regole significa mettersi a tavolino con il proprio figlio e mediare sui vari bisogni per trovare una posizione che sia possibile sia per figlio sia per il genitore. Non sono molti i genitori che adottano tale pratica: lo vedo quotidianamente nel mio lavoro e vedo anche la loro grande difficoltà ad adottare questa modalità, anche quando gli viene proposta! Altro grave errore consiste nel minimizzare ciò che i figli sentono! Di fronte a una loro sofferenza emotiva di qualsiasi tipo è vietato rispondere con: “Non piangere!”, “Non arrabbiarti!”, “Non preoccuparti, tanto non è niente!”. In questo modo i figli non si sentono compresi, né accolti né accettati nel loro dolore! Altro grande errore è quello di avere la presunzione di sapere ciò di cui i nostri figli hanno bisogno e di conseguenza non s’interpellano, ma si va avanti per la nostra strada nella convinzione che stiamo facendo la cosa migliore per loro! Infine, è di fondamentale importanza essere consapevoli che tutto questo avrà comunque pochissimo valore se alla base non vi è un grande amore verso i figli. I figli “sentono” quanto i genitori li amano e quanto sono accettati così come sono. E per rispettarli, a qualunque età, è necessario lasciarli liberi di essere ciò che sceglieranno di essere. Concludendo, vorrei terminare quest’articolo invitando tutti i genitori - in questo bruttissimo momento, dovuto alla pandemia da Covid 19, durante il quale la parola d’ordine è “restate a casa!” - a cogliere questo tempo per mettere in pratica quanto riportato in quest’articolo, cambiando la modalità di relazionarsi con la prole, per scoprire la bellezza e l’unicità dei propri figli, regalandosi momenti di condivisione che, solitamente, nella vita quotidiana nella quale si corre continuamente perché piena di cose da fare, non si ha né tempo né modo di esperire! Maddalena Palumbo: counselor, mediatore familiare, dottore in tecniche psicologiche, conciliatore. Per avere maggiori informazioni potete contattarmi: maddalena.palumbo@libero.it info.pacificazione@gmail.com |
|