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A cura della Dr.ssa Maddalena Palumbo
Il codice deontologico è un codice di comportamento, generalmente avente efficacia normativa, a cui il professionista deve attenersi per l’esercizio della sua professione. Esso stabilisce e definisce le concrete regole di condotta che devono necessariamente essere rispettate nell’esercizio della specifica attività professionale. Il codice deontologico degli psicologi è stato approvato dal consiglio nazionale il 28 giugno del 1996 e, dopo approvazione attraverso un referendum, è entrato in vigore il 16 febbraio 1998. Nel testo del 2006, approvato dal consiglio nazionale dell’ordine ai sensi della legge n. 56/89, si afferma che “Il professionista che opera nell’ambito delle tecniche psicologiche è tenuto al rispetto del codice deontologico”. Si fa quindi riferimento anche al Dottore in Tecniche Psicologiche, iscritto all’Albo B, anche se non viene mai citato esplicitamente. Anch’egli è tenuto al rispetto di tale codice. Il codice deontologico quindi fissa le norme dell’agire professionale e definisce i principi guida che strutturano il sistema etico in cui si svolge la relazione con il paziente. Il codice deontologico è costituito da 42 articoli suddivisi in cinque gruppi omogenei, che vanno a costituire i seguenti capi:
Eugenio Calvi (2000) individua nel nostro codice deontologico quattro “finalità ispiratrici”:
Inoltre, Calvi, afferma che alla base del codice vi sono anche dei “principi generali” necessari all’attività professionale:
Nei “rapporti con l’utenza” lo psicologo:
Nei “rapporti con i colleghi”, il professionista deve:
Dal punto di vista deontologico, gli articoli più delicati a cui devono porre attenzione gli iscritti all’Albo B, sono quelli che marcano due principi fondamentali: i limiti della competenza e la corretta pubblicità verso il cliente.
Riguardo alla corretta pubblicità, gli iscritti all’Albo:
Art. 24. (…) Lo psicologo fornisce all’individuo, al gruppo, all’istituzione o alla comunità informazioni adeguate e comprensibili circa le sue prestazioni, le finalità e le modalità delle stesse (…). Bibliografia Emilia Wanderlingh e Daniele Russo. professione Psicologo, manuale di preparazione all’Esame di Stato. Edizione Alpha Test 1 Ad oggi nonostante la legge autorizzi alla somministrazione di test standardizzati anche l’iscritto all’albo B, vi sono case editrici che impongono restrizioni alla vendita in modo arbitrario.
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Articolo a cura della Dott.ssa Maddalena Palumbo
Negli ultimi decenni molti sono stati i cambiamenti a livello legislativo per quanto riguarda gli Psicologi; l’ultimo in ordine di tempo è stata l’accorpamento in una unica Facoltà di Medicina e Psicologia. Dovendo qui spiegare la differenza tra Psicologo dell’albo A e Psicologo dell’albo B, è necessario risalire al decreto del MURST (ministero dell’Università e della ricerca scientifica e tecnologica) del 3 novembre 1999 numero 509 con il quale vennero riformati i corsi di studi universitari, con l’introduzione del “sistema 3 + 2” ovvero della creazione della laurea triennale e della laurea specialistica. Per quanto riguarda gli iscritti alla facoltà di Psicologia, coloro che conseguivano la laurea triennale ottenevano il titolo accademico di “Dottore in Scienze e Tecniche psicologiche”, coloro che conseguivano la laurea specialistica, successivamente denominata magistrale, ottenevano il titolo accademico di “Laurea magistrale in Psicologia”. Entrambe le tipologie di laureati, quindi, ottenevano un titolo accademico non professionalizzante e, per esercitare le loro funzioni, dovevano iscriversi all’ albo degli Psicologi. Quanto su scritto è valido tutt’oggi e, per ottenere il diritto di iscrizione all’Ordine, previa richiesta, gli Psicologi dovranno prima svolgere un tirocinio e poi affrontare l’Esame di Stato. Il tirocinio è di 1000 ore per i laureati magistrali e di 600 ore per i laureati triennali. Per coloro che ne avessero necessità, è possibile fare il passaggio dall’iscrizione all’albo B all’iscrizione all’albo A, ovviamente dopo aver fatto tutto il percorso necessario e senza la convalida del tirocinio, ovvero al semestre già fatto; gli Psicologi interessati a tale passaggio dovranno aggiungere un altro anno di tirocinio e rifare l’Esame di Stato per abilitarsi alla sezione A. Dopo il superamento dell’Esame di Stato e, previa domanda d’iscrizione, il laureato magistrale in Psicologia prenderà il titolo professionalizzante di “Psicologo” mentre il laureato triennale trasformerà il suo titolo accademico di “Laureato in scienze e tecniche psicologiche per i servizi alla persona e alla comunità” oppure “Laureato in scienze e tecniche psicologiche in ambito del lavoro e organizzativo” nel titolo professionalizzante di “Dottore in Tecniche Psicologiche” (DTP) nell’ambito prescelto. Per quanto riguarda il codice Deontologico della categoria, esso è identico per gli Psicologi iscritti all’albo A e per gli Psicologi iscritti all’Albo B. Fin qui tutto il percorso professionalizzante. Per quanto riguarda l’attuazione della professione, esistono della differenze tra lo Psicologo dell’Albo A e lo Psicologo dell’Albo B. Lo Psicologo dell’Albo A può svolgere le seguenti attività:
Alcuni ambiti professionali ricoperti dello Psicologo sono noti a tutti, come per esempio l’area clinica (occuparsi del disagio mentale ed emotivo), ma altri sono meno conosciuti, quali ad esempio Psicologia di comunità, Psicologia dello sviluppo o evolutiva, Psicologia sperimentale, Psicologia forense, Psicologia della salute, Psicologia del lavoro e delle organizzazioni, Neuropsicologia, Psicometria, Psicologia scolastica, Psicologia sociale e Psicologia dello sport. Nulla di questo è di competenza dello Psicologo iscritto all’Albo B. Riguardo allo Psicologo iscritto all’Albo B, questi i passaggi legislativi che hanno portato alla sua definizione.: ANNO 2001 – Con il Decreto del Presidente della Repubblica DPR 328/2001, l’istituzione dello psicologo Junior rispecchia la volontà del legislatore di identificare una figura (tecnica) che operi in ambiti diversi rispetto allo Psicologo. ANNO 2003 – Legge 170/2003 – Con Questo passaggio successivo si riducono le competenze autonome dello Psicologo dell’Albo B (DTP o Psicologo Junior), il quale può lavorare in equipe multidisciplinari e soprattutto affiancando lo Psicologo dell’albo A. Questa legge stabilisce i doveri, le competenze e gli strumenti dello Psicologo dell’Albo B ( o Dottore in Tecniche Psicologiche o Psicologo Junior). I doveri:
Lo Psicologo dell’albo B, Dottore in tecniche psicologiche PER I CONTESTI SOCIALI, ORGANIZZATIVI E DEL LAVORO” PUÒ: 1. Realizzare progetti formativi diretti a promuovere lo sviluppo delle potenzialità di crescita individuale e di integrazione sociale, a facilitare i processi di comunicazione, a migliorare la gestione dello stress e la qualità della vita; 2. Applicare protocolli per l'orientamento professionale, per l'analisi dei bisogni formativi, per la selezione e la valorizzazione delle risorse umane; 3. Eseguire progetti di prevenzione e formazione sulle tematiche del rischio e della sicurezza; 4. Applicare conoscenze ergonomiche alla progettazione di tecnologie e al miglioramento dell'interazione fra individui e specifici contesti di attività. Lo Psicologo dell’albo B, Dottore in tecniche psicologiche PER I SERVIZI ALLE PERSONE E ALLA COMUNITÀ”, può: 1. attuare interventi per la riabilitazione, rieducazione funzionale e integrazione sociale di soggetti con disabilità pratiche, con deficit neuropsicologici, con disturbi psichiatrici o con dipendenza da sostanze; 2. Collaborare con lo psicologo nella realizzazione di interventi diretti a sostenere la relazione genitore-figlio, a ridurre il carico familiare, a sviluppare reti di sostegno e di aiuto nelle situazioni di disabilità; 3. Collaborare con lo psicologo negli interventi psico-educativi e nelle attività di promozione della salute, di modifica dei comportamenti a rischio, di inserimento e partecipazione sociale; 4. Partecipare all'Equipe multidisciplinare nella stesura del bilancio delle disabilità, delle risorse, dei bisogni e delle aspettative del soggetto, nonché delle richieste e delle risorse dell'ambiente. Nello specifico può: IN AUTONOMIA: 1. utilizzare i test e altri strumenti standardizzati per l'analisi del comportamento, dei processi cognitivi, delle opinioni e degli atteggiamenti, di bisogni e delle motivazioni, dell'interazione sociale, dell'idoneità psicologica a specifici compiti e condizioni 2. esercitare attività didattica nell'ambito delle specifiche competenze caratterizzanti il settore 3. attuare interventi per la riabilitazione, rieducazione funzionale e integrazione sociale di soggetti con disabilità pratiche, con deficit neuropsicologici, con disturbi psichiatrici o con dipendenza da sostanze IN COLLABORAZIONE CON LO PSICOLOGO: 1. Costruire, adattare e standardizzare gli strumenti di indagine psicologica; 2. elaborare i dati per la sintesi psicodiagnostica (prodotta dallo psicologo). 3. realizzare interventi diretti a sostenere la relazione genitore-figlio, a ridurre il carico familiare, a sviluppare reti di sostegno e di aiuto nelle situazioni di disabilità; 4. realizzare interventi psico-educativi nelle attività di promozione della salute, di modifica dei comportamenti a rischio, di inserimento e partecipazione sociale; 5.partecipare all'Equipe multidisciplinare nella stesura del bilancio delle disabilità, delle risorse, dei bisogni e delle aspettative del soggetto, nonché delle richieste e delle risorse dell'ambiente (= Referto/Relazione. Es. per un bambino con difficoltà di apprendimento, l’equipe può essere formata dall’insegnante, da uno psicologo, da un logopedista, da un neurologo infantile ecc …) Pertanto deve avere competenze, quali: L’elaborazione dei dati ( prodotti dallo psicologo dell’Albo A, per la sintesi psicodiagnostica).
Bibliografia Girotto, V., Zorzi, M., (2016). Manuale di psicologia generale. Il Mulino, Bologna. Anolli, L., Legrenzi, P., (2012). Psicologia generale. Il Mulino, Bologna. A cura di Maddalena Palumbo.
Quando si forma una coppia, sia essa convivente o coniugata, questa potrebbe desiderare avere dei figli: diventare mamma e papà o, come oggi giorno talvolta accade, mamma e mamma, papà e papà. In nessun caso, comunque, si nasce genitori! Si tratta di due persone adulte che si assumono l’impegno di prendersi cura dei propri figli, siano essi naturali o adottati o avuti in maternità surrogata ecc. Non fa nessuna differenza su “come” si siano avuti i figli, purché si sia disponibili ad amarli incondizionatamente. Il vero amore per i figli non può non essere incondizionato! Ma quanti genitori sono capaci di questo tipo di amore? Certamente non è facile e molto dipende anche dalla storia di vita e dalle esperienze, dai problemi e dai traumi vissuti nelle famiglie di provenienza dei genitori stessi e quindi dai modelli familiari che si trasmettono di generazione in generazione! Ma … se è complicato e difficile amare un figlio incondizionatamente, specialmente per quei genitori che hanno difficoltà di fronte a creature disabili e/o con handicap, tutte le famiglie si cimentano nell’educare i figli. Anche quando non vi è una volontà esplicita, è lo stesso ambiente familiare che li educa in un modo anziché un altro, sia a livello socioculturale sia a livello emozionale. L’educazione socioculturale consiste nelle regole sociali della “tribù” di appartenenza, e con questo termine vogliamo definire il continente, la nazione, la città e la famiglia di cui si fa parte in un dato momento storico. Sappiamo, infatti, che le regole sociali sono diverse secondo le diverse culture e dei diversi periodi storici. Inoltre è bene sapere che le figure genitoriali fanno da modeling per i figli e quindi se, ad esempio, i genitori dicono bugie non possono aspettarsi né tantomeno pretendere che il figlio non le dica. Allo stesso modo, se il genitore è disonesto intellettualmente non si può aspettare né pretendere che i figli siano onesti. Così come, se il genitore pensa solo ed esclusivamente a se stesso, ignorando le esigenze del prossimo, siano essi familiari e/o sociali, non potrà pretendere che il figlio diventi una persona rispettosa dei bisogni altrui. Dell’educazione alle emozioni, mi sembra, invece, che i genitori siano interessati molto poco e, anche chi vorrebbe cimentarsi in quest’operazione, spesso non ha conoscenze sufficienti per metterla in pratica e di conseguenza, non di rado lo fa in modo sbagliato. L’alfabetizzazione emozionale consiste nell’insegnare ai figli a riconoscere le proprie emozioni, imparare a gestirle e a comunicarle. Anche questo dipende molto da quanto i genitori stessi le riconoscono, le comunicano e le gestiscono e quanto le trovino legittime. Ad esempio, in quasi la totalità delle culture alle figlie femmine vengono riconosciute, apprezzate e convalidate la compassione e il pianto come espressione di un certo tipo di emozioni; ma non è allo stesso modo che si educano i figli maschi, ai quali si dice che per un maschio “piangere è vergognoso!” oppure “ sembri una femminuccia!” e che deve essere un “duro”! Non è questo dunque, il modo di educare i figli! Non è in questo che verte la loro educazione! Quindi, qual è il “vero” compito educativo di ogni genitore? La parola educare viene dal latino “e-ducere”, ovvero “portare fuori”, sarebbe quindi compito di ogni genitore riuscire a “portare fuori” da ciascun figlio il proprio, vero e autentico modo di essere e di sentire, agevolandoli nel far emergere i loro talenti anche quando questi non collimano con quelle che sono le loro aspettative. Ecco! Queste sono le vere barriere per riuscire a educare bene i propri figli! In molti casi, infatti, fin dalla tenera età i bambini vengono manipolati dai genitori per realizzare i propri sogni e si può verificare che, magari, chi ha una grande vena artistica venga pilotato a fare degli studi e/o a svolgere delle attività che niente hanno a che fare con l’arte. Nella maggioranza dei casi ciò accade o perché i genitori desiderano che i loro figli abbraccino la loro stessa professione/attività o perché i genitori non hanno realizzato i propri sogni e vogliono vederli realizzati nei propri figli! Come si può concretizzare il “vero” compito educativo di ogni genitore? ASCOLTANDOLI!!! La risposta sembrerà banale e invece il segreto è tutto qui! “Ascoltare” non equivale a “sentire”: sono due situazioni molto diverse! Ascoltare i figli significa comprendere i loro bisogni, i loro sentimenti, le loro tristezze, le loro emozioni e insegnare loro ad individuarle, accettarle e saperle esprimere. “E-ducare” consiste, quindi, nel far loro da guida nel rispetto di ciò che sentono in modo da far sì che la ghianda si apra e porti fuori il suo frutto e quindi che al figlio tanto amato venga data la possibilità di realizzare veramente se stesso: diventare ciò che era nato per essere!!! Per conseguire quest’obiettivo è indispensabile evitare errori che risultano essere di impedimento a una giusta e corretta “e-ducazione”, quali ad esempio, essere iperprotettivi volendo evitare ai figli tutte le sofferenze e arrivando finanche a schierarsi dalla loro parte nel momento in cui un professore dà qualche insufficienza nell’interrogazione e/o qualche punizione: purtroppo non esiste persona al mondo che abbia potuto raggiungere tale obiettivo e poi, non dimentichiamolo, sono proprio gli intoppi, le sofferenze, i problemi, gli ostacoli con il conseguente superamento degli stessi che ci fanno crescere e maturare. È necessario creare e sostenere la loro autostima e, affinché ciò avvenga, quando i genitori danno dei giudizi, non devono stigmatizzare la persona per ciò che ha fatto, bensì focalizzarsi sul comportamento che si vuole correggere. Ad esempio: non dire “ sei stato cattivo” ma “questa cosa non va fatta”, in tal modo il bambino/ragazzo non si sente sminuito nella persona ma si sente comunque accettato dai genitori, i quali devono far sentire il proprio figlio unico! Certamente bisogna anche sapere, come detto sopra, che si fa da modelli per i propri figli e quindi è necessario adottare dei comportamenti e degli atteggiamenti determinanti, affinché il figlio possa apprendere una modalità che sia funzionale per sé e per gli altri. Una strategia fondamentale da utilizzare con i figli è adottare delle regole condivise. Le regole, infatti, non devono mai essere imposte, perché in tal modo non sono comprese dai figli e vengono vissute da loro soltanto come un’imposizione, avvertendo un senso di schiacciamento da un’autorità superiore. Condividere le regole significa mettersi a tavolino con il proprio figlio e mediare sui vari bisogni per trovare una posizione che sia possibile sia per figlio sia per il genitore. Non sono molti i genitori che adottano tale pratica: lo vedo quotidianamente nel mio lavoro e vedo anche la loro grande difficoltà ad adottare questa modalità, anche quando gli viene proposta! Altro grave errore consiste nel minimizzare ciò che i figli sentono! Di fronte a una loro sofferenza emotiva di qualsiasi tipo è vietato rispondere con: “Non piangere!”, “Non arrabbiarti!”, “Non preoccuparti, tanto non è niente!”. In questo modo i figli non si sentono compresi, né accolti né accettati nel loro dolore! Altro grande errore è quello di avere la presunzione di sapere ciò di cui i nostri figli hanno bisogno e di conseguenza non s’interpellano, ma si va avanti per la nostra strada nella convinzione che stiamo facendo la cosa migliore per loro! Infine, è di fondamentale importanza essere consapevoli che tutto questo avrà comunque pochissimo valore se alla base non vi è un grande amore verso i figli. I figli “sentono” quanto i genitori li amano e quanto sono accettati così come sono. E per rispettarli, a qualunque età, è necessario lasciarli liberi di essere ciò che sceglieranno di essere. Concludendo, vorrei terminare quest’articolo invitando tutti i genitori - in questo bruttissimo momento, dovuto alla pandemia da Covid 19, durante il quale la parola d’ordine è “restate a casa!” - a cogliere questo tempo per mettere in pratica quanto riportato in quest’articolo, cambiando la modalità di relazionarsi con la prole, per scoprire la bellezza e l’unicità dei propri figli, regalandosi momenti di condivisione che, solitamente, nella vita quotidiana nella quale si corre continuamente perché piena di cose da fare, non si ha né tempo né modo di esperire! Maddalena Palumbo: counselor, mediatore familiare, dottore in tecniche psicologiche, conciliatore. Per avere maggiori informazioni potete contattarmi: maddalena.palumbo@libero.it info.pacificazione@gmail.com A cura di Maddalena Palumbo.
Ad oggi sono molteplici le attività di tipo psicologico: lo Psicologo, lo Psicoterapeuta, il Dottore in Tecniche Psicologiche, il Counselor, il Mediatore Familiare ecc. Le prime tre sono le sole professioni psicologiche che, allo stato attuale, rientrano tra le attività sanitarie che sono riconosciute dal Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi, CNOP, dopo relativa iscrizione all’Albo Regionale. Ciascuna di queste attività ha necessità di un preciso e tipico percorso per apprendere conoscenze, competenze e strategie da applicare per aiutare le persone che si rivolgono a loro, avendo come centralità il “benessere psicologico” dei pazienti. I percorsi, quindi, come detto sopra, sono precisi e specifici per arrivare all’iscrizione all’Albo. Ma qual è dunque la differenza tra psicologo psicoterapeuta? Consiste appunto nel tipo di percorso e nella conseguente abilitazione per il tipo di intervento. Lo psicologo è il soggetto che ha studiato per cinque anni conseguendo prima la laurea triennale e poi la laurea magistrale con un indirizzo specifico in una determinata area della psicologia. Oltre all’indirizzo clinico, infatti, ne esistono altre che permettono di acquisire abilità e compiti specifici in settori delicati come: lavoro, comunità, scienze cognitive, ecc. A questo punto si è laureati in psicologia, ma ancora non si ha diritto al titolo di psicologo. Come si raggiunge questo titolo? È necessario fare un anno di tirocinio, della durata di mille ore. Esso si deve svolgere presso enti convenzionati con l’università di appartenenza. Vi sono strutture che si interessano di bambini e adolescenti (età evolutiva), di anziani, di famiglia, di coppia ecc. Il laureato, quindi, sceglierà quella che gli è più consona anche in vista del bacino di utenza che vorrà avere e del tipo di lavoro che vorrà svolgere. Anche dopo l’anno di tirocinio il percorso non è ancora terminato: è in agguato il famigerato esame di Stato che spaventa la maggior parte degli studenti! Questo esame consta di quattro prove di cui tre scritte e una orale. Il superamento di tale esame darà diritto all’iscrizione all’Albo degli Psicologi della regione di appartenenza. Gli Albi Regionali sono riconosciuti dal CNOP, e solo dopo questa iscrizione ci si può fregiare del titolo di Psicologo. A questo punto, cosa manca ancora per diventare uno psicoterapeuta? Manca ancora un percorso alquanto lungo e impegnativo: la specializzazione! Essa consiste nel frequentare una scuola, di specializzazione appunto, della durata di quattro anni, al fine di raggiungere una specifica formazione teorica e pratica. A queste scuole vi possono accedere sia il laureato in psicologia, come su detto, che i laureati in Medicina e Chirurgia. Le scuole di specializzazione devono essere riconosciute dal MIUR secondo le normative vigenti. Esse rispecchiano tipologie diverse e specifiche di intervento: psicoanalisi, cognitivo, cognitivo-comportamentale, analisi transazionale, Gestalt, sistemica relazionale, familiare e tante altre. Inoltre vi sono scuole cha prediligono una formazione pluralistico integrata, come ad esempio la scuola ASPIC (Associazione per lo Sviluppo Psicologico dell’Individuo e della Comunità). Ogni Psicologo farà un’attenta analisi, valutazione e selezione della scuola da preferire perché è da essa che dipenderà il suo futuro lavorativo e direi personale, nel senso di soddisfazione e appagamento, visto che gran parte della vita di ciascuno è assorbita dal lavoro. È importante sapere che alcune scuole consigliano mentre altre impongono un percorso personale di psicoterapia come strumento necessario ad affrontare il lavoro tutt’altro che semplice di psicoterapeuta. La mia opinione personale è che il percorso debba essere prescritto in quanto non ci si può dedicare al benessere psicologico altrui se prima non ci si è dedicati al proprio, lavorando su se stessi e sulle proprie dinamiche disfunzionali: chi può sostenere di non averne? Questo percorso servirebbe come base per riuscire a fronteggiare ad esempio situazioni di risonanze rispetto al proprio vissuto. Al termine dei quattro anni di specializzazione, previa presentazione di una tesi e di un esame finale, coloro che avranno superato tali verifiche, potranno fregiarsi del titolo di Psicoterapeuta e potranno comunicarlo all’Ordine di appartenenza. Fin qui le differenze del percorso da fare per conseguire il titolo di psicologo o di psicoterapeuta. Ma quali sono poi le differenze pratiche nell’attività professionale? In generale, lo psicologo può somministrare test, svolgere colloqui a fini diagnostici, selezionare il personale, realizzare attività di orientamento tramite colloquio individuale o di gruppo, eseguire attività educative in piccoli gruppi per promuovere abilità psico-sociali, interviene per la prevenzione, diagnosi, attività di abilitazione, di riabilitazione e di sostegno rivolte a persone, gruppi, organismi sociali e comunità. Inoltre può svolgere attività di sperimentazione, ricerca e formazione nell’ambito prescelto. In particolare, l’indirizzo clinico consente una peculiare specializzazione nel settore della salute mentale, diagnosi psicologica e interventi volti all’aiuto. In sintesi i compiti e le mansioni dello psicologo sono: diagnosi e cura di disturbi psicologici; prevenzione del disagio e promozione della salute; supporto psicologico; consulenza psicologica (counseling); attività di riabilitazione; programmazione e verifica di interventi psicologici, psico-sociali e psicoeducativi. Lo psicologo, inoltre, può fare delle valutazioni della problematica presentata dal paziente e può ritenere necessario un “trattamento psicoterapeutico”: questo è di competenza esclusiva di questo professionista. Lo psicoterapeuta quindi è abilitato a svolgere la psicoterapia, un percorso di trattamento per i disturbi psicopatologici, utilizzando specifiche tecniche psicoterapeutiche apprese nel percorso di specializzazione. Concludendo questa dissertazione sulle differenze tra psicologo e psicoterapeuta mi piace sottolineare che comunque entrambe le figure professionali, durante i loro incontri con i pazienti, devono necessariamente mettere in pratica l’ascolto attivo, l’ empatia e l’accettazione incondizionata con particolare attenzione alla comunicazione, alla fiducia e all’alleanza di lavoro! Per avere maggiori informazioni potete contattarmi: maddalena.palumbo@libero.it info.pacificazione@gmail.com |
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